La poetessa contessa Lara, la storia antica e moderna di uno dei primi casi di femminicidio
Una drammatica esistenza quella di Evelina Cattermole, divenuta famosa come Contessa Lara (Firenze, 1849 – Roma, 1896). La vicenda della sua morte è passata alla storia come uno dei primi casi di femminicidio. L’intera vita della Cattermole fu caratterizzata dalla disobbedienza tipica degli artisti parigini, capovolgendo i cliché che volevano la donna del tempo totalmente dedita al focolare domestico. Nella lirica, ‘I miei versi’, lei stessa immagina lo scandalo che susciteranno i sonetti incentrati sulle sue relazioni amorose, descrivendo peró sempre la sua vita in modo esplicito e sincero.
Protagonista dei salotti mondani dell’epoca, l’anticonformista autrice è divenuta una figura leggendaria dell’Italia bigotta e provinciale della seconda metà dell’Ottocento.
Le trasgressive relazioni passionali di questa poetessa e narratrice cosmopolita per vocazione, in quanto figlia di padre scozzese e madre inglese, che raccontava di aver visto la luce in Francia, a Cannes, pur essendo nata a Firenze, suscitarono clamore e riprovazione soprattutto negli ambienti letterari toscani, dove conobbe due dei suoi numerosi amanti, gli scrittori siciliani Mario Rapisardi e, il più importante per lei, Giovanni Alfredo Cesareo.
Prima di loro, era stata sposata con Francesco Eugenio Mancini, che aveva sfidato a duello e ucciso il rivale in amore con cui Evelina lo tradiva sistematicamente.
Ultimo amante della Contessa Lara fu un giovane pittore napoletano squattrinato, Giuseppe Pierantoni, che la ucciderà sparandole con una rivoltella, mosso da folle gelosia nei suoi confronti e dal desiderio di impossessarsi dei suoi averi.
Eva non riusciva ad allontanarsi da lui, nonostante un giorno di maggio 1896 l’avesse chiuso fuori di casa: Pierantoni era rientrato con la forza, passando da una finestra, e lei non riusciva a liberarsene. Alcuni amici le consigliarono di recarsi alla Questura e di denunciarlo, ma lei temeva la sua reazione.
Nell’estate del 1896, si recò in villeggiatura in Liguria, dove ebbe modo di incontrare un amico di sempre, Ferruccio Bottini, che stava raggiungendo la propria nave a La Spezia: Eva gli confidò i suoi problemi, e lui la invitò a lasciare il convivente e a rifugiarsi a Livorno, ospite della sua famiglia. Le comprò anche un revolver da tenere in borsetta per maggior sicurezza.
A ottobre 1896 Eva tornò a Roma, decisa a traslocare a Livorno dai Bottini, ma la fine tragica della sua vicenda sentimentale con il pittore napoletano avvenne il 30 novembre, durante l’ennesima lite in cui Eva gli intimava di andarsene e in cui fu fatale proprio la presenza nella stanza di quel revolver che doveva usare per difendersi e che Pierantoni, infine, in circostanze mai ben accertate, rivolse contro di lei colpendola all’addome, per poi puntarla contro se stesso, ferendosi all’ascella.
La pistola era un modello da signora, di piccolo calibro, e il colpo non provocò la morte immediata di Evelina, che però non fu immediatamente soccorsa. Pierantoni e la domestica, Luisa Medici, che nel frattempo era accorsa, persero diverso tempo prima di chiamare un medico, il dottor Parboni, e le forze dell’ordine giunsero sul posto parecchie ore dopo, quando Eva era già agonizzante.
Fino all’ultimo, a chi si recò al suo capezzale, Eva insisté nel dire che il ferimento era stato dettato solo ed esclusivamente da interesse economico: «Assassino, l’ha fatto per interesse, soltanto per interesse…». Voleva scongiurare al suo aggressore le molte attenuanti alla pena che le giurie dell’epoca tendevano ad applicare per i moventi passionali.
Condannata in vita dai perbenisti, Evelina lo sarà anche dopo la sua tragica scomparsa. Al processo verranno infatti concesse tutte le attenuanti al suo assassino, nonostante il movente economico doloso rivelato da lei stessa ai soccorritori durante l’agonia e sostenuto dal PM durante il processo e da articoli della stampa.
Il processo a carico di Pierantoni fu celebrato due anni dopo presso la Corte d’Assise di Roma e fece scalpore. Il Pubblico Ministero, che definì Pierantoni «l’assassino sfruttatore di donne», e la stampa sostennero il movente economico.
L’avvocato difensore di Pierantoni quello passionale. Durante il processo il Pierantoni cercò, come ultima difesa disperata, di attribuire la sua azione al grande turbamento provocato nella coppia da una rappresentazione della Carmen di Bizet. Non fu possibile provare l’esatta dinamica dei fatti, né le motivazioni economiche e il processo si concluse il 10 novembre 1898 con la condanna di Pierantoni a 11 anni e 8 mesi di reclusione per omicidio volontario, con il riconoscimento delle attenuanti della provocazione lieve.
La “lussuriosa” Contessa Lara sarà considerata una personalità priva di freni morali, isterica e sessualmente instabile. Una “poco di buono” che, nell’Italia dell’epoca patriarcale e maschilista post unitaria, non meritava piena Giustizia.
I funerali ebbero un gran concorso di folla, e furono molte le manifestazioni di affetto, ma fu offuscato da un grave scandalo: i fondi raccolti per la sepoltura svanirono nel nulla e i resti della scrittrice non poterono avere una sepoltura adeguata. Il testamento indicava come unico erede l’amico Ferruccio Bottini, che rifiutò il lascito.