SHARING ECONOMY: DI COSA SI TRATTA?
La sharing economy, o economia della condivisione, è un concetto che si è andato affermando negli ultimi decenni, declinato in vari modi e applicato a diversi settori economici e sociali. Specialmente ai suoi albori il termine stesso, sharing economy, è stato fonte di dibattito a livello internazionale, proprio perché il fenomeno è recente e l’area concettuale al quale fa riferimento è vasta e variegata. Così si sono sviluppate una serie di definizioni contigue, analoghe o parallele: da peer-to-peer economy a economia collaborativa, da gig economy a economia on-demand fino a consumo collaborativo. Termini a volte usati in modo intercambiabile, ma che, secondo gli esperti, indicano attività lievemente (o, a volte, sostanzialmente) diverse. Negli ultimi tempi sta prendendo piede il fenomeno della sharing mobility, che potremmo considerare un sottoinsieme della sharing economy: la possibilità di muoversi da un luogo ad un altro attraverso mezzi e veicoli condivisi come car sharing, bike sharing, scooter sharing, ma anche car pooling e analoghe modalità di condivisione.
La pandemia iniziata nel 2020 ha avuto un inevitabile impatto sulla sharing economy: la “condivisione” alla base del concetto è stata resa più difficile, se non impossibile, dalle norme di igiene e distanziamento sociale necessarie a contrastare il Covid19. Ne hanno risentito vari settori e business, da BlaBlaCar (condivisione auto) a Airbnb (affitti brevi), anche se quest’ultima ha saputo affrontare l’emergenza meglio di altri, riuscendo anche a quotarsi con successo al Nasdaq a fine 2020.
Tuttavia nel 2021 la sharing mobility ha dimostrato un’inattesa capacità di resilienza. Come riporta l‘Osservatorio Nazionale sulla sharing mobility (OSM), pur sperimentando un calo annuale complessivo delle percorrenze del 30,6%, la diminuzione dei servizi di mobilità condivisa è risultata inferiore rispetto ad altri servizi di mobilità, come per esempio il servizio ferroviario regionale o ad alta velocità o il servizio di trasporto aereo, calati rispettivamente del 38%, 66% e 69%.
In fondo la sharing economy è uno dei capitoli di una sorta di grande romanzo collettivo sull’innovazione che si sta scrivendo giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, e che può ancora riservare sorprese. Ecco un rapido excursus delle definizioni più significative fornite fino ad oggi.
SHARING ECONOMY: CHE COS’È E COME FUNZIONA
Il primo esempio di sharing economy nell’era di Internet è indicato da molti in eBay, il sito di vendita e aste online fondato il 3 settembre 1995 da Pierre Omidyar a San Jose, California. In Italia è arrivato nel 2001 e l’anno successivo è avvenuta la fusione tra eBay e l’istituto di credito PayPal. Questo marketplace di compravendita di oggetti e prodotti viene considerato uno dei primi facilitatori dell’economia della condivisione nell’epoca della trasformazione tecnologica.
LA SHARING ECONOMY SECONDO L’OXFORD DICTIONARY
Il prestigioso dizionario ha introdotto il termine sharing economy nel solo nel 2015. La voce dedicata recita: “È un sistema economico in cui beni o servizi sono condivisi tra individui privati, gratis o a pagamento, attraverso Internet. Grazie alla sharing economy, si può agevolmente noleggiare la propria auto, il proprio appartamento, la propria bicicletta o persino la propria rete wifi quando non li si utilizzano”. Da questa definizione si potrebbe dedurre che è sharing economy è il fulcro dell’attività, per esempio, di BlaBlaCar, la startup che consente agli utenti di scambiarsi passaggi in auto. E Uber rientra in questa definizione? In fondo gli autisti di Uber utilizzano la propria auto per trasportare i viaggiatori, seppure intermediati dall’applicazione fornita dalla società californiana. La voce del dizionario non lo specifica.
LA SHARING ECONOMY SECONDO RACHEL BOTSMAN
Autrice di What’s Mine is Yours: How Collaborative Consumption is Changing the Way We Live (Harper Collins, 2010) e contributor di testate internazionali, l’americana Rachel Botsman è nota per il suo pensiero sul potere della collaborazione e della condivisione tramite l’utilizzo della tecnologia per trasformare il mondo. A suo dire “la sharing economy è un’idea destinata a durare, ma nel tempo si è dispersa l’idea di cosa sia e di cosa non sia. Il quadro sta diventando sempre più confuso e questo è un problema”. La sua definizione è: “Un sistema economico basato sulla condivisione di beni o servizi sottoutilizzati, gratis o a pagamento, direttamente dagli individui. Buoni esempi: Airbnb, Cohealo, BlaBlaCar, JustPark, Skillshare, RelayRides, Landshare”. Significativa è l’introduzione dell’aggettivo “underused” in riferimento ai beni e servizi da condividere. Botsman descrive anche le altre terminologie comunemente utilizzate per definire modelli economici di condivisione.
LA SHARING ECONOMY SECONDO ARUN SUNDARARAJAN
Arun Sundararajan, docente alla Stern School of Business della New York University, ha pubblicato un libro intitolato “The Sharing Economy- The End of Employment and the Rise of Crowd-Based Capitalism”. In un’intervista a EconomyUp ha spiegato il suo concetto di crowd-based capitalism, capitalismo basato sulle folle: indica come l’organizzazione delle attività economiche si stia trasferendo dall’imprenditore alle ‘folle’, ovvero come l’imprenditoria sia distribuita tra la popolazione. “Continuo ad usare questo termine – ha spiegato – perché sono un professore universitario, ma il mio editore mi ha chiesto di intitolare il libro ‘Sharing Economy’ perché è la parola conosciuta dalla maggior parte delle persone, che le coinvolge di più e che loro riconoscono quando si parla di questi temi”.
SHARING ECONOMY: CON QUALI PAROLE DEFINIRLO
Come premesso, il termine sharing economy è generico e omnicomprensivo. Esistono definizioni più specifiche e circoscritte. Vediamone alcune.
SERVIZI ON DEMAND (ON-DEMAND SERVICES) O ECONOMIA ON DEMAND
Si definiscono servizi on demand le piattaforme che fanno incontrare in modo diretto le esigenze dei consumatori con coloro che le possono soddisfare attraverso l’immediata consegna di beni e servizi. Come scrive l’Economist, all’inizio del 20esimo secolo Henry Ford combinò la catena di montaggio con la forza lavoro per poter costruire automobili molto più economiche e veloci, in modo da rendere l’auto non più un giocattolo per ricchi ma un mezzo di trasporto per le masse. Oggi un crescente gruppo di imprenditori sta cercando di fare lo stesso con i servizi, mettendo insieme il potere dei computer con i lavoratori freelance per fornire beni di lusso che un tempo erano destinati solo ai più abbienti. A questo proposito l’Economist cita Uber, che mette a disposizione autisti con berlina, ma anche Handy, startup americana che fornisce personale per le pulizie, e SpoonRocket, che consegna pasti a domicilio: “Un giovane programmatore di San Francisco potrebbe già vivere come un principe utilizzando questi servizi” annota l’autore dell’articolo. Ma elenca anche startup che rientrano nei servizi on-demand senza per questo avere a che fare col lusso: per esempio Medicast, applicazione per chiamare un medico a domicilio, o Axiom, che fornisce legali e consulenti.
GIG ECONOMY
La gig economy, letteralmente economia dei “lavoretti”, indica solitamente tutti quei modelli di business in cui la forza lavoro è rappresentata principalmente da appaltatori indipendenti e liberi professionisti invece che da impiegati a tempo indeterminato. In questo senso, rientrano nella categoria sia i fattorini (rider) che fanno le consegne a domicilio, perché vengono pagati per lo più a consegna e considerati appaltatori indipendenti, sia gli autisti (driver) di Uber, perché i proprietari delle macchine vengono pagati per una prestazione professionale. Ma anche le persone che fanno le pulizie per Helpling, o i virtual assistant, gli sviluppatori software e i data scientist che si possono ingaggiare su UpWork. In tutti i casi si tratta di lavori temporanei.
ECONOMIA PEER-TO-PEER O PEER-TO-PEER (P2P) ECONOMY
Il termine è stato coniato da Michel Bauwens, teorico, scrittore e ricercatore belga, classe 1958, che ha poi dato vita alla Foundation for Peer-to-Peer. Da anni sta dedicando la sua vita alla diffusione della conoscenza intorno alle pratiche peer-to-peer e alla crescita della economia della condivisione. La definizione è spesso usata in parallelo con quella di sharing economy. L’approccio di Bowens appare più macro-economico e meno legato ad esempi pratici, a differenza dell’americana Botsman, che segue una metodologia più pragmatica. Per Bowens la Peer-to-Peer Economy è un modello decentralizzato dove individui interagiscono per comprare o vendere beni e servizi direttamente l’uno con l’altro, senza intermediazione di una terza parte, o senza l’uso di un’azienda. Il compratore e il venditore eseguono le transazioni direttamente l’uno con l’altro. A causa di questo il produttore possiede sia gli strumenti (o mezzi di produzione) sia il prodotto finito. Bowens ritiene che questa forma economica rappresenti un’alternativa al tradizionale capitalismo, dove i proprietari dell’azienda possiedono i mezzi di produzione e anche il prodotto finito, e assumono forza lavoro per portare avanti il processo di produzione. Tra gli esempi di economia peer-to-peer, Bowens cita il modello di Curto Café di Niteroi, nello Stato di Rio de Janeiro: una comunità che si propone di produrre del caffè di qualità senza sfruttare i produttori primari ed essere allo stesso tempo sostenibile. È una comunità non gerarchica, senza uno staff permanente, ha sostituito i costosi certificati fair trade con una catena produttiva aperta, condivide pubblicamente la ricerca sulla composizione dei prodotti e le prenotazioni, utilizza il crowdfunding per espandere la distribuzione e modifica, hackerandole, le macchinette del caffé per permettere di accogliere anche altri tipi di capsule. Un altro modello interessante citato da Bowens è Wikispeed, società dell’automotive fondata a Seattle, Washington: ha inventato un metodo di manifattura estremo, che permette di rilasciare un differente design per automobili ogni settimana (attraverso lo sviluppo parallelo dell’open design) e produrre l’automobile all’interno di micro-fabbriche.
RENTAL ECONOMY
Il termine rental economy è stato usato soprattutto negli anni 2013 e 2014, come sinonimo di sharing economy, dal quale è stato poi in parte soppiantato. Ovviamente in questo caso specifico si vuole sottolineare il concetto di “rent”, “dare o prendere in affitto o a noleggio”. Di conseguenza le startup della rental economy sono individuate soprattutto in Uber ma anche in AirBnb, la piattaforma internazionale che consente di affittare appartamenti o case di privati per periodi temporanei. Come hanno scritto gli esperti di marketing del ConvergEx Group, “rent is becoming the new ‘own’”, “il concetto di affitto sta diventando il nuovo ‘è di mia proprietà’”. Negli Stati Uniti, in particolare, la proprietà – della casa, della macchina o di altri beni – sta cedendo il passo al fenomeno dell’affitto condiviso. Questo perché, spiegano gli esperti, “prendere in affitto e condividere ci permette di vivere la vita che vogliamo senza effettuare spese al di sopra delle nostre possibilità”.
SHARING ECONOMY: IL CASO AIRBNB
Airbnb viene spesso citato come esempio di sharing economy. Di fatto si è trasformato negli anni in qualcosa di altro, anche se il punto di partenza è stata la condivisione di spazi abitativi. La storia di Airbnb inizia a San Francisco nel 2007, dove vivevano Brian Chesky e Joe Gebbia, due coinquilini neolaureati in difficoltà economiche. Per cercare di pagarsi l’affitto, decisero di pubblicare un annuncio per affittare alcuni posti letto a casa propria durante il meeting dell’Industrial Designers Society of America, che quell’anno si svolgeva nella città californiana e aveva riempito tutte le stanze disponibili negli hotel. Da quel momento in poi l’home sharing e gli affitti a breve termine hanno cominciato velocemente a diffondersi e a diventare un sostanzioso business, grazie anche all’immensa varietà di alloggi disponibili e di molteplici opzioni di prezzo. Partendo dalla sharing economy, AirBnb ha cambiato il mondo in cui si condividono gli spazi abitativi e causato una disruption nel mondo dell’accoglienza e dell’hotellerie. Data quasi per morta all’inizio del 2020, quando la pandemia sembrava aver fermato per sempre le attività turistiche e la condivisione di spazi abitativi, a dicembre di quell’anno Airbnb ha debuttato in modo eccellente al Nasdaq, il mercato azionario di New York per le imprese tecnologiche. A convincere gli investitori sono state la capacità di adattarsi ai tempi (la società si è concentrata sul turismo locale) e l’affidabilità del CEO Brian Chesky. Nel 2021 la società ha riportato un incremento del 77% del fatturato a 6 miliardi di dollari, e una forte crescita dell’adjusted ebitda che è passato dal rosso di 251 milioni del 2020 al positivo di 1,6 miliardi nel 2021. E’ rimasto negativo l’utile netto, pari a 352 milioni di dollari, a fronte però di una perdita ben più consistente di 4,6 miliardi nel 2020.
SHARING MOBILITY: CHE COS’È E COME SI STA SVILUPPANDO
La sharing mobility è il fenomeno in base al quale i trasferimenti da un luogo ad un altro, ovvero la mobilità, avvengono con mezzi e veicoli condivisi: car sharing, bike sharing, scooter sharing, condivisione di mezzi della micromobilità come monopattini elettrici, ma anche car pooling e analoghe modalità di condivisione. La mobilità condivisa e sostenibile contribuisce alla smart mobility di una città.
La sharing mobility sta prendendo piede con l’emergere del problema relativo alla logistica dell’ultimo miglio: spesso, soprattutto nelle grandi città, pendolari e residenti sono costretti a prendere mezzi diversi, pubblici e privati, per raggiungere il luogo di lavoro e rientrare a casa. I veicoli in condivisione (soprattutto biciclette e scooter) possono essere utili per riuscire a ultimare questo tratto di strada non coperto da altri mezzi.
Nel 2019 il protagonista della sharing mobilità italiana è stato il monopattino elettrico. Sono state infatti stabilite dal ministero dei Trasporti nuove regole per i monopattini elettrici e altri mezzi della micromobilità. In base al decreto Toninelli, dal 27 luglio 2019 i Comuni italiani hanno avuto un anno di tempo per regolamentare la circolazione di questi e altri veicoli leggeri come segway, hoverboard e monowheel. Da allora questi mezzi della micromobilità si sono moltiplicati sulle strade urbane delle grandi città e di alcuni centri di medie dimensioni.
Dopo la “mannaia” della pandemia, la sharing mobility ha superato lo shock e ha ripreso a crescere: nel 2021 scooter, bike e monopattini in condivisione hanno superato i valori del 2019 pre-pandemia e il car sharing li ha raggiunti nell’ultima parte dell’anno.
Secondo il report presentato a novembre 2021 dall’Osservatorio nazionale sulla sharing mobility, in Italia sono 5.600.000 le iscrizioni ai servizi di mobilità condivisa, con 158 servizi di sharing attivi in 49 città (il triplo del 2015). Circa 15 milioni di italiani possono utilizzare almeno un servizio, con quasi 90.000 veicoli in condivisione tra auto, scooter, bici e monopattini. Tuttavia, segnala lo studio, le città dove sono presenti tutte e quattro le tipologie di veicoli con i relativi servizi di sharing sono solo quattro: Milano, Roma, Torino e Firenze.
SHARING MOBILITY: LA STORIA DEL GURU DEL BIKE SHARING
L’americano Russell Meddin, soprannominato “Bike-Share Guru”, può essere considerato un campione della sharing mobility: nato nel 1951 a Philadelphia, per molti anni è stato consulente dell’industria Public-Use Bicycle e ha contribuito a portare nella sua città il programma di bike sharing Indego, per poi diventare consulente di programmi analoghi negli Stati Uniti e nel mondo. Per 11 anni, fino alla sua morte, si è occupato della Bike-sharing World Map , mappa mondiale di tutti i siti per la condivisione di biciclette, e del Bike-sharing Blog. Dopo la sua scomparsa, ad aprile 2020, la mappa è stata rilanciata da un gruppo di appassionati per onorare la sua memoria e ribattezzata The Meddin Bike-sharing World Map. Il progetto include una squadra internazionale di curatori, un’interfaccia migliorata e la sponsorizzazione di PBSC Urban Solutions.
SHARING ECONOMY E REGOLE
La sharing economy pone un problema di regole. Si tratta, infatti, di un fenomeno con radici antiche (la condivisione di beni e mezzi è sempre esistita nella storia dell’umanità), ma sul quale la tecnologia ha avuto un effetto disruptive, rendendo necessaria la riscrittura di vecchie regolamentazioni inadatte a gestire la trasformazione digitale. Pensiamo solo agli attacchi che ha suscitato Uber in buona parte del mondo. In Italia il 2 marzo 2016 alcuni deputati dell’Intergruppo Parlamentare per l’Innovazione Tecnologica hanno presentato una proposta di legge per regolamentare il settore. Ma la legge non ha mai visto la luce. Sulla questione regolamentatoria si è pronunciato Arun Sundararajan. “Penso che innanzitutto sia necessario riscrivere le regole – ha detto – alcuni governi lo stanno già facendo. Non siamo ancora pronti al cambiamento sociale. Nelle varie epoche storiche le comunità erano rappresentate dal villaggio, dalla chiesa, oggi per molti la community di riferimento è l’azienda. Da qualche anno si sta cominciando a creare una nuova struttura comunitaria. Una comunità nell’ambito della quale ognuno sarà più indipendente per quanto riguarda la propria carriera. Ma anche una comunità dove i contatti con gli altri sono reali. I social network stabiliscono relazioni virtuali, attraverso una startup come BlaBlaCar accetti passaggi in auto da perfetti sconosciuti con i quali ti relazioni in modo reale. (…) Personalmente giro il mondo per incoraggiare i governi a rendersi conto che il vecchio modello di regolamentazione non funziona più e che, se non ne creeranno uno diverso, i servizi non partiranno. Ma se non partono, non si crea lavoro e l’economia ne risente“.
LA GIG ECONOMY, I RIDER E LA POLITICA
A giugno 2018 la gig economy è finita al centro del dibattito del nuovo governo guidato da Giuseppe Conte. In un primo momento sembrava che l’esecutivo fosse sul punto di approvare un decreto legge che avrebbe modificato di molto le norme che regolano il settore delle consegne a domicilio, dove operano per esempio Foodora e Deliveroo. Foodora ha detto che avrebbe lasciato l’Italia, dopodiché Luigi Di Maio, all’epoca ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, vicepresidente del Consiglio e capo del Movimento 5 Stelle, ha invitato le aziende di consegne a domicilio e i rider a partecipare a un tavolo di contrattazione per stabilire un miglioramento delle condizioni di lavoro e salariali dei fattorini, che lamentano di essere pagati pochissimo e di non avere tutele di alcun tipo. Dopo qualche fase di stallo nel percorso, a distanza di oltre un anno, il 7 agosto 2019, il Consiglio dei Ministri ha dato via libera al decreto legge che punta a garantire la tutela economica e normativa di alcune categorie di lavoratori particolarmente deboli, tra cui appunto i rider. Nel frattempo è cambiato il governo e Di Maio non è più ministro del Lavoro. Tuttavia la situazione dei rider non sembra molto migliorata. Le norme previste nell’ambito del “decreto salva imprese” dell’estate 2019 intervengono principalmente sul problema delle assicurazioni e non modificano il rapporto di forza sbilanciato fra azienda e lavoratore, in quanto non riconoscono a quest’ultimo la necessità di un contratto subordinato e non intervengono in modo migliorativo sulla sua precarietà retributiva.
Con la pandemia, le consegne di cibo a casa da parte dei rider si sono moltiplicate. Secondo l’osservatorio Just Eat, prima dell’emergenza sanitaria il 34% degli utenti non aveva mai ordinato digital food delivery prima. Purtroppo, di pari passo con l’incremento delle consegne a domicilio, sono emersi anche comportamenti scorretti nei confronti dei rider da parte dei datori di lavoro, accusati da alcune parti di sfruttamento e “schiavismo”.