Ucraina, la grande paura di Kiev col nemico alle porte
Tanti scappano, molti altri restano: ‘Ma per favore aiutateci’
“Con mio marito abbiamo deciso di non scappare, resteremo qui, a Kiev.
Perché se lo facciamo perderemo non solo la faccia davanti a Putin, ma davanti al mondo. Ma la prego, lo scriva, lo faccia sapere agli italiani: aiutateci”.
Marina ha 59 anni, un bel cappello e mentre parla le scende una lacrima. Una sola. Poi la fermata della
metro di Teatralnaya la inghiotte. Poco dopo scende la sera, la prima notte da sfangare sapendo di essere sotto attacco, coi russi alle porte. Che avanzano sui tank.
Già questa mattina Kiev si è svegliata frastornata, attaccata ai telefonini e in preda alla confusione. Chi si è alzato presto ha sentito distintamente i boati delle bombe provenire dalla zona dell’aeroporto. Ma la città non ha realizzato subito cosa stava accadendo. Il traffico, fino alle 7 del mattino, è stato regolare. Poi, spettrale, si è levato il suono delle sirene. E a quel punto si è capito che qualcosa di grave stava accadendo. Le macchine si sono fatte più rade, gli esercizi commerciali hanno abbassato le serrande, gli uffici hanno evacuato il personale. A quel punto è scoppiato il panico, la gente è salita sulle auto e ha iniziato ad abbandonare la città, con una teoria d’ingorghi e file ai benzinai. Ma c’è chi non ha scelta. Come Olena, insegnante di piano in pensione. “Vivo vicino a Maidan, le rivoluzioni le ho viste tutte”, racconta. “Ho pensato di scappare a Leopoli ma mi hanno detto che è zeppa di sfollati.
Comunque, dove vai alla mia età? Meglio stare qui alla fine”.
Già, gli sfollati. Si vedono anche a Kiev. Alla fermata della metropolitana di Druzhbi Narodiv. Che vuol dire “amicizia fra le nazioni”. Quasi una beffa. Tante donne, tanti anziani, tanti bambini. Le auto della polizia, d’altra parte, già in tarda mattinata per le strade, attraverso megafoni improvvisati, incoraggiavano la cittadinanza a prendere rifugio nelle metropolitane e nei sottopassi. E così la gente ha fatto. I bimbi sono scossi. Piangono. Le mamme e le nonne cercano di consolarli, tirano fuori gli smartphone e giù di cartoni. Ma l’incantesimo prima o poi finisce.
“Dov’è papà, voglio il mio papà”, grida sconsolata una bimbetta sui quattro anni.
Questo per gli uomini è il momento delle scelte che ti lacerano le viscere: la famiglia, i compagni, la patria. Tocca decidere.
Poco più in là c’è uno dei centri di arruolamento per i volontari. C’è fila. Dentro non fanno entrare gli stranieri, comprensibilmente.
Viktor, 63 anni, esce entusiasta. “Mi hanno rifiutato per tre volte ma ora finalmente mi hanno preso, vado a combattere per l’Ucraina”, afferma orgoglioso. Accanto a lui, più in là, Maksim, 41 anni, si fuma una sigaretta. Lui è capo di brigata e dopo il turno alla coscrizione tornerà alla sua unità. “Abbiamo il 500% dei volontari in più del 2014”, assicura. Basterà per bloccare i russi. Risatina. Occhi al cielo. Non sembra eccessivamente convinto. “Se riusciamo a mobilitare un milione di persone sì…”. Ma a quel punto torna la questione degli aiuti esterni. “Abbiamo bisogno dell’aiuto dell’Europa e degli Usa, armi, soldi. Almeno i soldi. Ma non per noi, noi combattiamo gratis, per la patria: è per sostenere le nostre famiglie mentre non siamo al lavoro”.
Quello della mobilitazione è un tema chiave. I riservisti sono già stati richiamati e le grandi aziende devono fare i conti anche con la conseguente carenza del personale. Alcune compagnie, le più grosse, quelle con le spalle larghe, hanno liquidato oggi gli stipendi, in anticipo. Per mettere i soldi in tasca alle persone. Ora si aspetta. E la cosa peggiore è che non si sa cosa. Il sacco della città? Un’operazione chirurgica? Altri bombardamenti? Il presidente Volodymyr Zelensky ha esortato il popolo a combattere in ogni piazza. Ecco, se sarà davvero così il prezzo del sangue rischia di essere davvero alto.